Erdogan: scelte sbagliate e politica della forza
L’articolo di Ali Abdallah apparso su al-Hayat il 21 gennaio parla di Erdogan. della sua politica della forza contro i curdi e della sua insensatezza. Sia per la sua personalità intransigente sia per problemi di politica interna, come il cambiamento della costituzione e le alleanze necessarie per approvarlo, e sia per l’ossessione curda nella mentalità nazionalista turca il presidente turco è entrato in guerra in Siria con il possibile esito di compromettere le aspirazioni della rivoluzione siriana da lui sempre sostenuta. Meglio sarebbe stato se avesse portato a termine il processo di accomodamento con i curdi siriani del PKK iniziato nel 2013 e poi bruscamente interrotto.
I preparativi turchi per attaccare il cantone di Afrin riflettono come la Turchia perseveri nella scelta sbagliata adottata da Erdogan da alcuni anni. La scelta di fare a meno di un accomodamento pacifico della questione curda in Turchia e di entrare in un nuovo ciclo di scontri, ignorando i dati e i risultati che si possono desumere dal precedente decennale conflitto che ha avuto ricadute negative sulla Turchia e sulla sua popolazione: migliaia di vittime e ampia distruzione di città e villaggi con la perdita di miliardi di dollari. Per non parlare dello stretto controllo che attua l’esercito turco sulla vita militare e civile con il prosciugamento di una grande parte delle risorse del bilancio dello stato: stipendi, benefici e indennità. Allo stesso tempo le forze turche hanno fallito nell’annientare le attività dei curdi e le loro legittime aspirazioni politiche.
La forte inclinazione a risolvere con la politica della forza i diversi dossier politici hanno spinto Erdogan a partecipare allo scontro che ruota attorno alla questione curda specialmente in Siria e Iraq, dove più ci si adopera per spegnere il movimento curdo, affinché un’eventuale soluzione raggiunta in questi territori non costituisca un precedente che obblighi a riconoscere i diritti curdi in Turchia. Questo è il motivo che sta dietro l’avversità nei confronti del referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno e contro il progetto federale del Partito dell’Unione Democratica (PYD) in Siria.
ll problema di Erdogan e della sua scelta politica è che la Turchia è più debole di quanto non sarebbe se allo scontro partecipassero le grandi potenze che volessero avere un tornaconto. Inoltre si trova coinvolta più direttamente a causa dei suoi interessi diretti o secondari che si sforza di ottenere e di proteggere. E’ quindi nella necessità di ottenere il consenso dei grandi che non glielo concederanno fino a quando non coincideranno i propri vantaggi con la posizione turca o non verrà pagato pegno in qualche altro dossier, in un contesto chiamato dagli analisti “allacciare le varie questioni”.
E quello che rende più fragile e vulnerabile la posizione di Erdogan sono le richieste legate ai dossier interni, come alla politica, ai diritti umani e alla sicurezza (e tra queste vi è anche la questione curda), portate avanti dalle grandi potenze. Accettarle creerebbe un contrasto evidente con l’immagine che il presidente turco, che deve anche affrontare la prova elettorale delle presidenziali, prova a darsi di difensore dei diritti del suo paese il quale tenta di liberarsi dalla sorveglianza americana sulle sue decisioni.
Erdogan è riuscito ad evitare il controllo totale da parte delle Unità di protezione popolare (YPG) della striscia di confine a discapito dei siriani che hanno pagato un prezzo di sangue e distruzione per il disimpegno turco al Aleppo. Disimpegno necessario per avere l’assenso russo all’operazione “Scudo dell’Eufrate”, in cui hanno dato un sanguinoso contributo i combattenti dell’Esercito Siriano Libero” (ELS) i quali hanno liberato il triangolo Jerablous – Azaz – al-Bab da Daesh e che hanno tagliato la strada alle YPG che tentavano di unificare il cantone di Kobane ad Afrin. Questo l’ha spinto, come sembra, a ripetere la stessa operazione affrontando questa volta il cantone di Afrin sempre con il sangue siriano poiché le unità armate dello “scudo dell’Eufrate” saranno coinvolte nel fuoco della battaglia contro i curdi e a danno delle aspirazioni di dignità e libertà della rivoluzione siriana, le cui fazioni strettamente dipendenti dalla protezione turca, saranno spinte a partecipare alla cosiddetta “conferenza del dialogo nazionale siriano” di Sochi.
E qui bisogna indicare un punto centrale che ha semplificato l’opera di persuasione verso l’ELS per spingerlo a combatterei curdi dell’YPG, e questo è il cattivo trattamento riservato da questi ultimi nei confronti degli arabi e dei turcomanni della regione posta sotto il loro controllo. E anche i curdi che la pensano diversamente dal punto di vista politico non si salvano dalla loro violenza. Infatti le forze dell’ YPG hanno occupato villaggi e cittadine arabe e qui attuano discriminazioni e oppressioni sugli abitanti scacciandoli e distruggendo i loro insediamenti per evitare che tornino, costringendo i giovani all’arruolamento obbligatorio e imponendo tasse di transito alle merci e ai commercianti.
Il buon senso richiede alle fazioni dell’ELS che vaglino il giusto peso di guadagno e perdita che riverserà su di loro questa battaglia e che valutino il prezzo che pagheranno per gli scontri o per l’accomodamento che otterrà Erdogan con la Russia e l’Iran a discapito delle aspirazioni della rivoluzione e dell’opposizione siriana. L’identica assennatezza chiede alle YPG di far cadere i pretesti tirati in ballo da Erdogan e di ritirarsi dai villaggi arabi che circondano Afrin per consegnarli all’ELS o ai consigli locali.
In conclusione Erdogan avrebbe potuto ridimensionare il pericolo che vede nelle mosse e nei programmi dei curdi che risiedono nelle nazioni vicine se avesse continuato nell’opera di accomodamento delle divergenze che gli aveva offerto Ocalan, il quale ha rinunciato al progetto di separazione in cambio di un’equa soluzione per i curdi all’interno del territorio turco. E se Erdogan avesse concluso un accordo che avesse posto fine a questo lungo scontro ora potrebbe giocare un ruolo positivo per risolvere la questione curda nelle altre nazioni grazie all’attuazione di un precedente equilibrato e soddisfacente per tutte le parti.