La diffidenza verso l’Iran
Alcuni commenti letti in questi ultimi giorni sui principali giornali arabi riguardano il presunto cambiamento della politica estera iraniana in seguito alla nomina di Rouhani come presidente della repubblica. Certamente il neo-presidente non viene annoverato tra le fila dei conservatori e vanta, a detta di molti, un pragmatismo ed un’abilità diplomatica non allineata su posizioni prettamente ideologiche. In più, l’essersi affermato al primo turno in elezioni in cui ha sfidato quelli che erano ritenuti i candidati più vicini al regime, ha sottolineato il desiderio di apertura espresso dall’elettorato popolare. Si aggiunga inoltre la sua disponibilità ad aprire un dialogo con l’Occidente, per discutere in maniera seria la questione nucleare e la conseguente cancellazione di alcune sanzioni.
Tutti questi segnali dovrebbero portare ad un cauto ottimismo da parte della diplomazia internazionale, sennonché è proprio la stampa araba a risultare più dubbiosa verso la svolta iraniana. E i motivi sono molteplici.
Innanzitutto, il fatto che il potere effettivo e l’ultima parola su alcune decisioni strategiche siano nelle mani della guida suprema, l’Ayatollah Khameney, custode della dottrina del “velatat-e faqih”, lo strumento che consente lo strapotere del clero nell’Iran contemporaneo. Nessuna riforma che possa intaccare questo potere avrà mai successo.
In secondo luogo, il fatto che alla base di questa dottrina vi è l’esportazione della rivoluzione iraniana nel mondo arabo. Questa tendenza spaventa molto gli stati del Golfo, in cui vi è una forte componente sciita (nel Bahrein rappresenta la maggioranza della popolazione). Già in passato essi hanno sentito come una minaccia le aspirazioni di Teheran di diventare una potenza del M.O..
Alla base quindi non ci sarebbe solo uno scontro dottrinale fra sunniti e sciiti, ma anche un contrasto geo-politico. La mediazione sulla questione nucleare non sarebbe altro che il tentativo dell’Iran di arrivare a questo riconoscimento di potenza regionale, anche da parte dell’Occidente.
L’articolo che pubblica As-sharq al-Awsat a firma Huda al-Husseini, tratta delle strategie segrete adottate da Teheran per portare avanti azioni terroristiche tese a rendere instabili alcune aree in cui intende aumentare la propria influenza. Gli strumenti sono l’addestramento militare di guerriglieri e il loro inquadramento in diverse milizie che combattono, per esempio, in Siria per sostenere il regime di Asad o che compiono attentati terroristici in coordinamento con altri gruppi (Hezbollah). O ancora l’arruolamento di sciiti che possiedono passaporto iracheno (i loro movimenti non destano sospetti) e il loro inserimento in reti di spionaggio dedite a raccogliere informazioni per creare strutture in grado di aggirare i divieti imposti dalle sanzioni. La responsabilità di queste missioni è da ricercare nelle Unità al-Quds (diramazione delle Guardie rivoluzionarie) e nel Kata’ib hezbollah (da non confondere col quasi omonimo partito libanese). I loro ingredienti principali sono il segreto che avvolge i loro membri e le loro operazioni praticamente mai rivendicate, a dispetto di quanto avviene per analoghe organizzazioni terroristiche.
L’articolista spazza via così il campo da possibili ottimismi ed evidenzia i pericoli che tutt’ora, nonostante la presunta svolta politica, rappresenta la minaccia iraniana.