“L’insulto” una speranza di cambiamento?
Il film “L’insulto” del regista libanese Ziad Doueiri ci ripresenta l’eterno conflitto settario che devasta da decenni il Libano. Sono passati più di 25 anni dalla fine della guerra civile ma i contrasti tra le varie componenti della società libanese non si sono ancora sopite, per cui basta l’insulto rivolto dal capocantiere palestinese Yasser Saleme al militante cristiano Tony Hanna (“Sei un cane!”) per coinvolgere due intere comunità e di conseguenza tutto il paese in una vicenda giudiziaria che rischia di far ridiscendere precipitosamente al Libano la china della violenza e degli scontri sanguinari. Anche perché la disputa non finisce con quest’insulto che a noi occidentali non dice più di tanto, ma si infiamma per arrivare alla reazione violenta di Yasser che colpsce Tony quando quest’ultimo gli grida :”Magari Sharon vi avesse sterminato dal primogenito!”
Il film offre uno spaccato di storia recente del Medio Oriente attraverso le vicende dei palestinesi scacciati dalla Giordania dopo il “Settembre Nero” e rifugiatisi in Libano dove sono stati accolti a forza e visti come un forte elemento di instabilità Tra l’altro sono trattati come cittadini che non godono di pieni diritti non potendo lavorare. Ma ci sono anche le paure dei cristiani che ormai si vedono come una minoranza sotto costante assedio. Il tutto è ambientato nella vita quotidiana di Beirut dove le ruspe sono perennemente in movimento e i cantieri sempre aperti, ma dove è possibile trovare ancora l’atmosfera del “quartiere” con i suoi legami di comunità e di appartenenza.
I personaggi sono intensi e ricchi di personalità e fanno della dignità e dell’onore i propri punti di forza e non sono disposti a svendersi o a recedere perché fermamente convinti di avere ragione. E difatti più dei rimborsi economici contano gesti semplici e immateriali come la pretesa delle scuse. Per questo sono testardi e fuori dal comune ma non giungono mai al totale annullamento della propria umanità e non si lasciano mai travolgere completamente dall’odio. Colpisce come il cristiano Tony (meccanico di professione) tenga testa, senza venire meno ai propri principi, al tentativo di riconciliazione portato avanti dallo stesso presidente della repubblica, per poi subito dopo senza troppe parole faccia partire, fuori dalla sede del palazzo presidenziale, la macchina di Yasser che è rimasta in panne.
Ecco personaggi che forse hanno capito più di tutti che nel Libano di oggi il rischio della violenza irrefrenabile sia sempre dietro l’angolo. Sono maturi e consapevoli e mi piace pensare che durante il primo processo (il titolo in arabo del film è “Processo numero 23”) Yasser ingabbiato si rifiuti di rispondere al giudice che gli chiede cosa gli abbia provocato la rabbia che gli ha fatto colpire con un pugno devastante Tony, perché non ritiene opportuno che una simile affermazione venga ripetuta apertamente sia perché troppo vergognosa sia perché ben conscio di quello che potrebbe scatenare nei fragili equilibri sociali e settari del giorno d’oggi. E lo stesso Tony proprio per le stesse ragioni non approfitta del suo tragico passato (scampato all’eccidio del paese costiero di Damur operato da combattenti palestinesi) per raccontare in pubblico le vicende che hanno scolpito il dolore nella storia della sua famiglia. Sarà invece il suo legale a farlo. Quindi pudore…molto pudore e consapevolezza.
Alla fine sembra che un minimo di speranza per una possibile convivenza in Libano ci sia. Il segreto è conoscere la propria storia ma anche le vicende degli altri senza mai perdere di vista l’umanità presente anche nel più detestabile dei nemici.